sabato 7 maggio 2016

La storia della mia cicatrice

Un racconto di ANGELO CARRIERE (1ATL) provando a rivivere il dolore dello sterminio nazista


Era una mattina come tante altre,stavamo facendo lezione,quando, all’improvviso, il bidello bussò alla porta dicendo al professore che dovevo uscire per gravi motivi di famiglia. Certo non immaginavo che quella giornata sarebbe finita nel peggiore dei modi;
tornato a casa trovai mio padre accerchiato dalle guardie, mia madre in lacrime e la mia sorellina che continuava a giocare con la sua bambola. Con un filo di voce mio padre mi spiegò quello che stava succedendo “non temere” disse “torneremo il prima possibile”, mi disse di salutare la mamma e di dare la mano alla mia sorellina Sofia raccomandandomi di non perderla mai di vista. Mia mamma ci guardava trattenendo a stento le lacrime implorando i militari di prendere anche lei. Uscendo da casa, incontrammo tante altre famiglie che stavano lasciando il paese, alcune cercavano di scappare in preda al panico, altre si nascondevano nei luoghi più improbabili, ma tutti erano destinati a un’unica meta.
 Venimmo portati tutti alla stazione, lì incontrai un amico, Mimmo, arrivato il treno ci spinsero nelle carrozze; lì persi di vista l’unica persona con cui avrei potuto condividere quelle lunghe giornate di viaggio straziante. Ricordo ancora i volti di quelle persone gettate dal treno in corsa perché non riuscendo a tenersi in piedi erano solo d’intralcio. Più guardavo mio padre, più vedevo nei suoi occhi la tristezza e l’amarezza di una vita sprecata,costretto adesso a percorrere una strada a senso unico, senza la possibilità di fare scelte, che queste siano giuste o sbagliate.
Dopo più di due giorni di viaggio arrivammo in una stazione polacca il capolinea, non sapevo se essere felice per essere finalmente sceso da quel treno o impaurito per quello che mi aspettava. In ogni modo, dopo poca strada a piedi dalla ferrovia rincontri Mimmo, era alquanto sconvolto, guardandomi intorno però non trovai né suo padre né sua madre, gli chiesi se volesse aiuto o se avesse voluto venire con noi,niente,preferì tacere. Dopo quella miserabile e inutile conversazione le nostre strade si divisero ancora. Dopo alcuni chilometri finalmente arrivammo a destinazione, una specie di immenso parco giochi che invece delle giostre era costituito da stanze, semplici stanze,una più cupa dell’altra che solo a vederle mi si gelava il sangue. Un mucchio di corpi ammassati,e più in là un ammasso di vestiti, ciò che mi fece rabbrividire più del resto, mentre camminavo, fu la vista di un paio di scarpette probabilmente di una bambina che non poteva avere più i tre anni. Delle guardie ci fecero strada verso la prima stanza mentre costrinsero me e mio padre a lasciare mia sorella nelle loro mani perché femmina. In quella stanza ci rasarono i capelli, ci fecero spogliare ci stamparono un numero a caldo sul braccio e ci spinsero in un’altra stanza dandoci una specie di straccio che a quanto ci dissero,o meglio fecero capire urlando, sarebbe dovuto fungere da divisa. Dopo due settimane e mezzo di straziante lavoro retribuito con un misero pezzo di pane,se eri fortunato,io e mio padre chiedemmo di vedere Sofia; puntualmente ci venne negato, ma quella volta al solito “no!”   aggiunsero:” Non ti preoccupare più di tua figlia,è inutile”. In quel momento, che non dimenticherò mai, vidi mio padre per la prima volta impotente,lo vidi crollare su se stesso, come una torre in equilibrio che non aveva più motivo di tenersi in piedi. Io non seppi più cosa fare,negli ultimi giorni avevo esaurito le lacrime,perciò mi limitai ad urlare, prima mia madre,poi mia sorella e infine mio padre che era praticamente morto,straziato e letteralmente a terra, fino a quando le stesse guardie che mi annunciarono poco prima la morte di mia sorella me lo portarono via. Ero rimasto io,solo,con il mondo che mi cadeva addosso, dovetti dormire agonizzante da solo in un buco scavato nel muro, credevo che non ce l’avrei fatta.
Un giorno,poi, precisamente il 18 Gennaio 1945 osservai che le guardie stavano smantellando tutto, davano fuoco a tutto ciò che trovavano, varie persone cominciarono a scappare e a gridare: ”la guerra è finita,è finita,siamo liberi!”. Poi finalmente vidi dopo mesi un faccia amichevole che mi porgeva la mano, aveva una difesa, non come la mia, non come quella delle guardie che avevo osservato fino a quel momento, aveva cucito su di essa una bandiera,quella americana, allora io allungai la mano verso quell’uomo, lui mi prese sulle spalle e, mentre mi portava fuori da quell’inferno, vidi Mimmo, anche lui aveva uno sguardo perso, allora cominciai a chiamarlo e ad urlare il suo nome ricolmo di gioia”è finita, ce ne andiamo” gli urlai quando si voltò verso di me,pochi istanti dopo però vidi il suo viso spegnersi e il suo corpo cadere per terra dopo che una guardia tedesca lo trivellasse di colpi. Mi ritrovai così,ancora una volta, in lacrime provando amarezza e disgusto. Fui portato lontano, trovai persone pronte a prendersi cura di me che, anche non avendo visto nulla di tutto ciò che era successo, erano allo stesso tempo impaurite e tremolanti solo a vederci. Dopo alcuni giorni potetti finalmente tornare a casa e riabbracciare mia madre.
Mi sono reso da subito conto però che raccontare, spesso, può essere più difficile di vivere.



1 commento:

  1. Bravissimo Angelo...
    Mi hai regalato qualche minuto di grande commozione...

    RispondiElimina