sabato 14 maggio 2016

Lorenzo Vampo della 1ATL con un racconto rivive la guerra tra Roma e Taranto

L’alba di una guerra
I raggi del sole bollente picchiettavano forte sulla brulla e arida roccia dell’anfiteatro. Ci sarà stata tutta Taranto quel giorno ad assistere ai festeggiamenti del dio Dioniso. L’aria fresca e la brezza del mare vicino rinfrescavano quell’afosa giornata e allietavano lo spettacolo, combattendo il caldo. 

In quei giorni, in tutta la città si respirava aria di festa, di gioia e dedizione, e soprattutto quel giorno, i greci tarantini dedicavano tutto loro stessi per le celebrazioni in onore del dio del vino, come ormai era consuetudine fare da anni. L’allegria, le risa ed il divertimento delle genti però venne meno quando un solo uomo urlò, indicando con gli occhi sbarrati il mare. Gli sguardi fissi degli spettatori sull’arena dell’anfiteatro, si spostarono all’unisono in direzione delle acque. La sorpresa, lo sgomento e la rabbia si diffusero nei volti dei tarantini alla vista di una flotta romana all’orizzonte. In quel periodo, attorno al 282 a.C., Roma aveva stabilito con Taranto un trattato, secondo il quale le navi romane non potevano transitare nelle acque tarantine. E ora, quelle navi, poco lontane dal molo, dimostravano che Roma aveva violato il trattato e ben presto, tra la folla, si diffuse il caos. Le donne ed i bambini correvano nelle case a rifugiarsi, mentre noi uomini andavamo ad armarci per l’imminente battaglia. Io ancora non ero mai stato personalmente sul campo di guerra, dovevo ancora finire il mio addestramento e avevo poca esperienza, ma in quei momenti chiunque era tenuto a difendere Taranto.
Corremmo veloci all’arsenale e prendemmo rapidamente gli oplon, le spade e le lance, il tutto decorato da un lungo mantello blu sulle spalle. Al porto, erano già state preparate le nostre possenti triremi ed i soldati di rango più alto erano sulle imbarcazioni a dare i primi ordini per partire. Molti giovani come me s’imbarcarono quel giorno,… eravamo ansiosi di sangue, della fatica, della vittoria o della sconfitta. A poppa di un triremi vidi ergersi la figura di un uomo, un comandante, con le spade legate sui fianchi, lo scudo sulle spalle e l’elmo sottobraccio, fiero, era mio padre. Dall’alto lui mi guardava ed io guardavo lui, ma ci scambiammo solo una rapida occhiata prima che anch’io salissi su un nave. Tutti pronti, furono ammainate le vele e le nostre triremi greche partirono. Ci disponemmo in un particolare formazione, da noi chiamata “a diamante” e ci dirigemmo verso i romani. Con loro, era anche stato tentato un approccio più diplomatico, ma la loro presenza lì era una diretta violazione del patto e una dichiarazione di guerra. Intanto, le navi nemiche, vedendoci arrivare, si predisposero in assetto da battaglia pronti a contrastarci. Ma la forza e la volontà degli uomini greci, rendevano le triremi le navi più veloci mai costruite nel mondo conosciuto e, sferzando l’acqua che bagnava i nostri ardenti corpi, li raggiungemmo. Nell’impatto, i rostri spezzarono il legno delle navi romane, mentre iniziavano a volare le frecce degli arcieri, e al solo grido, unito e forte, di “UAH!” la flotta della Marina di Taranto si preparò all’attacco. Un confuso insieme di sensazioni indescrivibile provai in quel momento. Emozione, paura, rabbia, decisione, mi entrarono in corpo contemporaneamente, prima di incrociare la spada contro quella di un romano. Non dovetti aspettare molto e nel mio primo duello dovetti attingere a tutte le mie conoscenze pratiche per sopravvivere. Così feci e repentinamente affondai la mia lama nell’addome del nemico, bagnandola di sangue ancora caldo di un soldato morente.
Ormai sicuri di noi, io ed i miei compagni ci gettammo nella mischia e dalle navi romane giungevano a riva solo l’infrangersi di spade, lance e scudi di valorosi guerrieri che difendevano la loro patria, e le urla e le grida degli usurpatori  che con tanta presunzione e incoscienza avevano osato sfidarci e che ora andavano incontro al loro destino. Il sole cominciava a ritirarsi ed il mare delle coste tarantine si tingeva di rosso del sangue romano. Le loro navi andavano man mano diventando dei vergognosi relitti che nulla avevano potuto contro la flotta di Taranto. Niente prigionieri era la regola e niente prigionieri ci furono. Alla fine della battaglia eravamo ormai stanchi, ma pronti ad affrontarne altri ancora se ce ne fossero stati, perché finalmente avevamo raggiunto il nostro scopo, diventare soldati, io ed i miei compagni, che quel primo giorno di guerra avevamo sconfitto i potenti legionari romani. Quel giorno, di sicuro, non sarebbe mai stato dimenticato, il giorno in cui il ferro greco aveva incrociato quello romano, il giorno in cui, come il dio Ares e i nostri antenati spartani ci hanno insegnato, con valore e con coraggio avevamo difeso i nostri concittadini innocenti. Sicuramente, quella non sarebbe stata l’unica battaglia, ma di certo nemmeno l’ultima, e noi tarantini eravamo pronti.


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